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Il sufismo o tasāwwuf (in arabo: ف£ّ§•¶†– taawwuf ) è la forma di ricerca mistica tipica della cultura islamica. Secondo i pareri degli studiosi, il sufismo sarebbe la continuazione di una preesistente e filosofia di carattere esistenziale che trae origine dalla fusione antica tra neoplatonismo e cristianesimo, utilizzando tuttavia concetti derivati da fonti greche, persiane antiche e indù, anche se la essenza più profonda è sicuramente di matrice islamica.

Fino al secolo scorso la Scienza del Sufismo era materia di insegnamento nelle università islamiche. Gli Imam, come tutti del resto, erano socialmente invitati a sottomettersi non solo allo studio di libri, ma anche alla pratica della Scienza della Purificazione dei Cuori.I sufi appartengono a diversi ordini, comunità formatesi attorno ad un maestro e che si riuniscono per delle sessioni spirituali, “majalis”, in luoghi d’incontro detti “tekke”.

La parola Sufi: una triplice etimologia

Gli “ahl us-Suffa” erano “quelli della veranda”, i Compagni del Profeta Maometto che sostavano ogni giorno sotto la veranda del profeta e della giovane moglie Aisha.

“Suf” vuol dire lana. I Sufi dei primi secoli erano asceti che vivevano nei deserti vestiti di una lunga tunica di lana, loro unica proprietà, insieme al secchiello per l’acqua. Questa tunica era ovviamente logora e rattoppata. Queste toppe, cento come i nomi di Allah menzionati nel Corano, in epoca più tarda divennero colorate, fino a diventare il “costume” tipico del “Dervish” (poverello) del medioevo, tutt’ora simili ai Muridi Baifal, i senegalesi dei giorni nostri.                          “Safa” vuol dire purezza: i Sufi sono i Puri. Per questo se chiedete a un monaco se é un Sufi, non sentirete mai dire di sì, perché chi lo é, per modestia non lo dice.

I principi Sufi

In arabo la parola “tasawwuf”, ossi Sufi, è composta da quattro consonanti che contengono in sé i principi dell’ordine.

 La prima lettera T stà per “Tawba”, ovvero “pentimento”, che è il primo passo sulla Via. E’ come se si trattasse di un doppio passo, uno esteriore ed uno interiore: l’esteriore consiste nel pentimento relativo alle parole, agli atti ed ai sentimenti, mantenendo la propria vita scevra di peccati e di atti illeciti, perseguendo l’obbedienza, rifuggendo rivolta ed opposizione per cercare accordo ed armonia. Il passo interiore del pentimento è un atto del cuore consistente nel purificarlo dai desideri per le cose di questo mondo e nella sua completa dedizione al Divino.

Il secondo grado è lo stato di gioia e purezza, “safà” ed è simboleggiato dalla lettera S. Anche in questo grado vi sono due passi da fare: il primo verso la purezza del cuore, il secondo verso il suo centro nascosto. La purezza del cuore (safà al-qalb) proviene da un cuore che si è liberato dall’ansia provocata dal peso delle preoccupazioni mondane per il cibo, per il bere, per il dormire, per i vani discorsi. Il modo per liberare il cuore e purificarlo è quello del ricordo (dhikr) di Allàh.

La terza lettera W, stà per la parola “walàya”, che è lo stato di santità degli amanti di Allàh e dipende dalla purezza interiore. Allàh menziona i Suoi amici (awliyà) nel Sacro Corano:

“Invero sugli amici di Allàh non vi è timore nè essi sono rattristati.”, “Per costoro vi sono delle buone novelle in questo mondo e nell’altro.” (Cor. 10 – 62,64). L’effetto visibile di tale stato è l’essere abbellito con i più bei tratti del carattere, con le virtù ed i buoni costumi; si tratta dell’elargizione di un dono divino.              Il Profeta (s.a.s.) ha detto: “Caratterizzatevi con i tratti divini”.

La quarta lettera F, stà per “fanà”, l’estinzione dell’io, lo stato di annientamento in Allàh , ovvero a tutto ciò che non è Allàh. Quando gli attributi della natura umana si estinguono ed il falso io svanisce assieme alla molteplicità degli attributi e delle forme di questo mondo, allora non sussistono più che gli Attributi dell’Unità (sifàt al-ahadiyya). Questa è la stazione dei Profeti e dei Santi, gli amici di Allàh, situata nel dominio della Natura divina (làhùt).

Mevlana Mohammed Rumi e i Dervisci rotanti

Mevlana Mohammed Rumi, in seguito a una fuga dall’Iran, si stabilì nel 1219 con la sua famiglia a Konya dove divenne un dotto teologo sotto la guida del padre, maestro spirituale della comunità.

Terminati gli studi teologici, nutriti da un certo interesse per la sferamistica, diventò un punto di riferimento importante per i giovani studiosi della città e l’incontro con un celebre personaggio soprannominato il Sole di Tabriz, un monaco povero, un dervish delle origini, divenne essenziale per la sua crescita spirituale. Dopo un anno di ricerca spirituale con lui, che poi fu ucciso in situazioni ben poco chiare, Rumi ebbe una fase creativa in cui scrisse un canzoniere e un poema, per un totale di oltre 25.000 distici. Le sue poesie rivestono un grandissimo valore letterario poiché rappresentano la nascita della poesia e la creazione dei canoni propri della letteratura persiana a venire.

Konia, 1250, in un Bazar. Rumi imboccò il vicolo degli orafi; gli artigiani battevano con i martelli il metallo ancora caldo e Rumi, percependo il ritmo costante e pulsante, cominciò, a tempo, a ripetere il nome di Allah. Con naturalezza, quasi senza esserne consapevole, allargò le braccia e cominciò a girare su se stesso, sempre più in fretta, vorticosamente, ripetendo senza sosta il nome di Allah. Un suo amico uscì dalla bottega e lo vide; divertito si avvicinò a lui, entrò nel vortice di quella danza, al ritmo dei martelli, e cadde in estasi. Dopo qualche mese la scena divenne abituale: gruppi di uomini si trovano davanti alla moschea e qui cominciavano a danzare. Portavano berretti alti, di feltro bruno, mantelli e soprabiti neri e tuniche bianche: erano nati i dervisci, i monaci danzanti. E’ stato lo stesso Rumi a creare l’abito ora tradizionale. Ecco che si unirono ai monaci danzatori anche i musicisti, poi sopraggiunsero i curiosi. Quando il chiasso della folla si placò, i musici iniziarono asuonare i loro flauti di canne, i tamburelli e, l’uno di fronte all’altro, arrivarono i dervisci che si inchinavano, baciavano le mani e poi iniziavano a camminare in cerchio, a piccoli passi. La musica accelerava e i danzatori con essa; cominciavano a ruotare su se stessi, uno alla volta, sempre più velocemente, fino all’estasi. La veloce rotazione li distaccava totalmente dal mondo della materia, inevitabile guardare dentro di sé: la forza centripeta li spingeva entro il proprio Io e li costringeva a centrarsi. Un rituale giunto pressoché immutato fino a noi.

I teologi accusarono Rumi di aver spinto i credenti al piacere terreno poiché con la musica e la danza scatenava un delirio blasfemo, ma la notizia dei danzatori di Konia varcò i confini dell’Anatolia ed altri ordini monastici iniziarono a cantare, a suonare e ballare per stabilire l’unione spirituale con Dio ed il creato.

Vedere un derviscio danzare è un’emozione unica: il sottosfondo di flauti e tamburi sviluppa un crescendo melodico. Essi depongono  la sovravveste nera, simbolo del mondo oscuro del quale l’anima è prigioniera e, candidi ed eleganti come grandi uccelli migratori, iniziano a ruotare utilizzando il piede come perno. La mano destra è aperta ed estesa verso il cielo e rappresenta la coppa del cuore pronta ad accogliere la grazia divina. La sinistra invece, aperta e diretta verso la terra, rappresenta la sorgente di vita che trasmette al mondo il divino influsso. Il copricapo nero invece  testimonia, come una pietra tombale, la chiusura dell’iniziato verso le passioni terrene, mentre l’ampia gonna che con il movimento si apre a corolla, vuole descrivere l’orbita della sfera del cosmo che ruota all’infinito intorno al centro dell’universo.D’altronde, il cerchio rappresenta il più antico simbolo sacro, emblema di unità e  perfezione, elemento di continuità e contatto con il Divino e con la sua forza creatrice.

Esiste una sorta di contrasto tra l’esteriorità del monaco Sufi, il cui movimento mentre danza è fluido e dinamico e la sua interiorità che invece è totalmente placata: la sua coscienza osserva in silenzio, indisturbata, totalmente assorbita e concentrata. Il Derviscio compie  un particolare esercizio interiore attraverso il quale realizza la fondamentale operazione di accellerare complessivamente la frequenza del ritmo  del proprio organismo e, nel contempo, di mantenere in equilibrio le varie parti del corpo in accordo con lo stato interiore, intellettivo ed emozionale. Lo spettacolo, per chi osserva, è di assoluta armonia e solennità, impossibile non farsi coinvolgere da una danza che incute soggezione e profondo rispetto per la devozione espressa.

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