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Il Buddha, profeta di una religione che colloca al centro l’uomo e la ricerca della consapevolezza di un’esistenza che si pone, quando libera delle trappole del karma, oltre lo spazio e il tempo, oltre il dolore, il desiderio e le manifestazioni dell’ego, è oggi una fonte di ispirazione e un’icona universale di ricerca spirituale e filosofica in tutti gli angoli del mondo.

Si fa risalire la fondazione del buddhismo al 566 a.C, quando a Lumbini, nell’odierno Nepal, nasce il principe Siddhartha Gautama.La sua famiglia di origine si dice che fosse ricca: una stirpe guerriere che dominava il Paese. Suo padre, ansioso di conoscere le virtù del suo discendente, volle consultare un sacerdote il quale attraverso un oracolo affermò che il bambino sarebbe stato una figura di eccelso valore, in ambito politico o spirituale. Il re, preoccupato da questa duplice attitudine di Siddhartha, non adatta al suo unico successore, definisce per lui una vita dedita alle virtù del regnante e dell’uomo di corte, tenendo lontane le insidie della vita che si svolgeva al di fuori delle mura regali. L’indole alla riflessione e alla trascendenza diventa sempre più evidente, egli mostra fin da subito la sua indole contemplativa, più adatta ad un monaco che ad un guerriero o ad un sovrano,  fino a che, giunto ai 29 anni, Siddhartha decide di lasciare il Regno, la giovane moglie e il figlio appena nato, per trovare una risposta agli interrogativi circa il senso della vita. Dopo tre brevi viaggi nelle campagne circostanti con il suo scudiero, infatti, si trova faccia a faccia con delle realtà sconosciute a lui ma universali per ognuno, ossia il dolore, la morte e la comprensione del senso profondo della vita.Si rese conto di quanto vivere negli agi e nelle ricchezze costituisse per lui una prigione dorata e decise di rinunciare per sempre alla famiglia, alla gloria ed al potere per dedicarsi alla vita ascetica ed ottenere la “liberazione”. All’età di 35 anni, dopo settimane di profondo raccoglimento, seduto nella posizione del Loto sotto un albero di fico a Bodh Gaya, durante una notte di luna piena del mese di maggio, ottenne l’Illuminazione perfetta, raggiungendo lo stato del Nirvana. Il Buddha, come dice il nome stesso, è un “risvegliato”: “Buddha”, infatti, è il participio passato del sanscrito budh, che significa prendere conoscenza, svegliarsi.

INTRODUZIONE AL BUDDHISMO

Le tre caratteristiche dell’Esistenza

Il Buddismo viene definito come una religione pragmatica, una pratica spirituale e filosofica e, in un certo senso, un’alternativa alla psicoterapia con la quale mostra di avere argomenti in comune. Non c’é alcuna deificazione del Buddha, ma l’osservazione schietta della condizione di esseri umani. Tutto ciò che il Buddha ha insegnato può essere verificato dalla nostra stessa esperienza. Il mondo attorno a noi è in mutamento costante, tutto è impermanente, ed è impossibile stabilire relazioni immutabili.Si può postulare un principio relativo ad una coscienza eterna o ad un io superiore, ma la nostra mente si compone di processi ed eventi temporanei. Vediamo che il nostro io è, tanto per iniziare, immaginario e, nella migliore delle ipotesi, una speculazione. Le tre cose conosciute come le tre caratteristiche dell’esistenza sono, infatti, il dolore, l’impermanenza e la convinzione dell’Io.

 Le quattro Nobili Verità

Il primo insegnamento impartito dal Buddha in seguito alla propria illuminazione fu circa le Quattro Nobili Verità. La vita è dolorosa: intorno a noi assistiamo a condizioni di svantaggio, malattia, infelicità e morte e questi sono stadi universali di cui ogni essere umano deve prendere atto. La sofferenza ha una causa, ossia la costante lotta per la sopravvivenza. Cerchiamo continuamente di provare la nostra esistenza, definendoci in rapporto a noi stessi e al mondo. E quanto più ci sforziamo di affermare noi stessi e le nostre relazioni, tanto più dolorosa diviene la nostra esperienza.Si può porre fine alla causa della sofferenza cessando di lottare per provare la nostra esistenza e per rendere immutabili le nostre relazioni.Creare delle relazioni semplici con il mondo e con chi lo abita; abbandonando le aspettative non si genera sofferenza e frustrazione rispetto al non accaduto. Il sentiero che conduce all’eliminazione della causa delle sofferenze è la meditazione intesa come pratica della concentrazione-attenzione/consapevolezza, shamata/vipashyana in sanscrito. L’esercizio dell’abbandono di aspettative e il conseguente emergere della consapevolezza sulla essenza reale delle cose permette di sviluppare uno stato di consapevolezza che permette di liberarsi da atteggiamenti contorti e manipolatori.

 I cinque Skandhas

La dottrina buddista dell’Io sembra confondere gli occidentali, forse perchè troppo legati alla concezione freudiana. L’Io buddista consiste in un insieme di eventi mentali classificati in cinque categorie chiamate skandhas, termine che viene tradotto imprecisamente con “mazzi” o “cumuli”. Si può dire che l’ordine primordiale ad un certo punto sia stato scardinato dal disordine e dalla conseguente perdita di fiducia che non fu subito riconosciuta come tale e si produsse un’identificazione con il panico e iniziò la formazione dell’Io. Questo è conosciuto come il primo skandha, lo skandha della “forma”: se un’ esperienza ci piace, tentiamo di introiettarla, se non ci piace cerchiamo di eliminarla o distruggerla. Se ci lascia indifferenti la ignoriamo. Il modo in cui ci comportiamo rispetto a questo è chiamato skandha dell’impulso/percezione. Lo stadio successivo consiste nel tentativo di identificare ed etichettare l’esperienza. Se possiamo inserirla in una certa categoria, riusciamo a manipolarla più facilmente. A quel punto avremo un intero repertorio di espedienti da mettere in atto riguardo a quel tipo di esperienza. Questo è lo skandha del “concetto”. Il passo finale della costruzione dell’Io viene chiamato lo skandha della consapevolezza. L’Io inizia a rimescolare continuamente pensieri ed emozioni e questo gli permette di autopercepirsi come qualcosa di solido e reale. Questo rimescolìo continuo è chiamato “samsara”, che significa letteralmente turbinìo, mulinello. Ciò che l’Io prova rispetto alla propria condizione è ciò che determina quale dei sei regni dell’esistenza sceglierà per sé stesso.

I Sei Regni

Se l’Io decide che la situazione è gradevole, inizia a macinare ogni tipo di mezzo per impossessarsene stabilmente. In noi nasce il bisogno inestinguibile di vivere quella situazione e bramiamo di soddisfare quel bisogno. Una volta soddisfatta, il fantasma di quella brama ci riporta indietro a guardarci intorno alla ricerca di qualcos’altro da conquistare. Quando l’occupazione principale è la brama, si parla del regno degli spiriti avidi. Nel regno dell’animalità la sicurezza viene cercata nel rendere completamente prevedibile ogni cosa. Ci spaventa anche solo il pensiero di possibili alternative e guardiamo storto chiunque proponga qualcosa di innovativo. Questo regno è caratterizzato dall’ignoranza. Il regno dell’inferno è caratterizzato da una violenta aggressività. Costruiamo un muro di rabbia tra noi stessi e le nostre esperienze. Tutto ci irrita, persino la frase più innocente e innocua ci fa impazzire di rabbia. Il bruciare della nostra rabbia ci si ritorce contro e ci conduce ad una frenesia volta a sfuggire a questa tortura, il che si risolve in una lotta ancora più aspra e in un livore sempre maggiore. L’intero stato si incrementa da solo tanto che alla fine non riusciamo più a capire se stiamo lottando contro gli altri o contro noi stessi. Siamo così presi a lottare che non troviamo alternative, non ci vengono neppure in mente. Questi erano i tre regni inferiori, i “tre veleni”. Uno dei tre regni più alti è quello chiamato del dio geloso ed è caratterizzato da un’acuta paranoia: siamo sempre occupati a “fare”. Tutto viene guardato da un punto di vista competitivo, siamo sempre impegnati a cercare di segnare punti a nostro favore e ad impedire che gli altri facciano lo stesso per sé. Se qualcuno ottiene un risultato speciale, diventiamo determinati a superarlo. Non ci fidiamo di nessuno, se qualcuno cerca di aiutarci, cerchiamo di capire a cosa mira, se non lo fa non vuole collaborare e ci ripromettiamo di pareggiare i conti. In un certo momento della nostra vita possiamo conoscere la spiritualità. Potremmo venire a sapere che esistono tecniche di meditazione, relative ad alcune religioni orientali o a religioni occidentali di stampo mistico, che possono rasserenare la nostra mente e renderci partecipi dell’armonia universale. Così decidiamo di iniziare a meditare e a praticare determinati rituali, ritrovandoci assorti in stati mentali di beatitudine e di appartenenza allo spazio infinito. Tutto appare splendente di luce e d’amore, ci sentiamo come creature divine. Diventiamo orgogliosi di questi poteri superiori relativi alla meditazione. Potremmo persino indugiare indefinitamente in questo regno dello spazio infinito, dove è difficile che i pensieri sorgano a turbarci, ignorando tutto ciò che non rafforza il nostro stato di benessere. Abbiamo creato il regno degli déi, il più elevato dei sei regni dell’esistenza. Il problema è che l’abbiamo creato noi stessi. Iniziamo a rilassarci e a non sentire più il bisogno di coltivare il nostro stato di esaltazione. Magari ci assale qualche piccolo dubbio. Ce l’abbiamo veramente fatta? In principio siamo ancora in grado di glissare sulla domanda, ma alla fine il dubbio si presenta sempre più spesso e ricominciamo a lottare per riconquistare le nostre sicurezze superiori. Non appena riprendiamo questa lotta, ricadiamo negli stati inferiori e ripetiamo il processo più e più volte: dal regno degli dei a quello del dio geloso, per passare al regno di animalità e poi a quello degli spiriti avidi e a quello infernale. Ad un certo punto, iniziamo a chiederci se esiste un alternativa al nostro modo abituale di rapportarci al mondo. Ed entriamo nel mondo di umanità.Il mondo di umanità è l’unico da cui si può partire per liberarsi dalla sofferenza dei sei stati di esistenza. Il regno di umanità è caratterizzato dal dubbio, dallo spirito di ricerca e dal desiderio di qualcosa di migliore. In questo stato non siamo schiavi delle preoccupazioni pressanti che caratterizzano gli altri stati di esistenza. Iniziamo a chiederci se sia possibile relazionarci con il mondo come semplici e dignitosi esseri.

L’ ottuplice Sentiero

La via per liberarsi da questi stati esistenziali infelici, come insegna il Buddha, consiste in otto tappe ed è conosciuta come “ottuplice sentiero”. Il primo punto importante è la retta visione, il giusto modo di vedere il mondo. Si ha una visione distorta quando si impongono le proprie aspettative agli eventi. La retta visione consente di vedere le cose con semplicità, è una disposizione d’animo aperta e accomodante. La speranza e la paura vengono abbandonate, siprova la gioia di un approccio schietto e semplice all’esistenza. Il secondo punto del sentiero è la retta intenzione e discende dalla retta visione. Se si è in grado di abbandonare le proprie aspettative, le proprie paure e le proprie speranze, non si ha più bisogno di essere manipolativi. Non si ha più la necessità di forzare le situazioni nella propria preconcetta nozione di come queste dovrebbero svolgersi. Si interagisce con ciò che ci si presenta, la propria intenzione è pura. Il terzo aspetto del sentiero è il retto parlare. Una volta che l’intenzione è pura, non si prova più imbarazzo nel parlare. Dal momento che non si sta cercando di manipolare le persone, non si è incerti sul cosa dire e neppure si ha necessità di bluffare sulle nostre intenzioni parlando con una sorta di falsa sicurezza. Diciamo ciò che va detto, in maniera semplice e genuina. Il quarto punto, retta disciplina, comprende un tipo di rinuncia. E’ necessario abbandonare la nostra tendenza verso le risoluzioni complicate. Si pratica la semplicità, si ha un rapporto semplice e schietto con il cibo, il lavoro, la casa e la famiglia. Si abbandonano tutte le complicazioni inutili e frivole con cui generalmente tentiamo di offuscare le nostre relazioni. Il retto modo di sostentarsi è la quinta tappa del sentiero. Guadagnarsi da vivere è semplicemente corretto e naturale, si dovrebbe essere contenti del proprio lavoro, qualunque esso sia. Si dovrebbe avere con il lavoro un rapporto semplice e bisognerebbe eseguirlo correttamente fin nei dettagli. Il settimo aspetto del sentiero è il retto sforzo. Lo sforzo sbagliato consiste nella lotta. Spesso ci si avvicina ad una disciplina spirituale pensando di dover sopraffare i propri lati negativi e incentivare quelli positivi. Ci si rinchiude in una battaglia con sé stessi, cercando di annullare persino le tendenze negative più sottili. Il retto sforzo non ha niente a che fare con la lotta. Quando si comprende come stanno le cose, ci si lavora sopra, con dolcezza e senza alcun tipo di aggressività, in ogni caso. La retta consapevolezza, il settimo passo, comporta chiarezza e precisione. Si è consapevoli dei più fini dettagli della propria esperienza. Diventiamo consapevoli del modo in cui parliamo, del modo in cui svolgiamo il nostro lavoro, della nostra postura, della nostra disposizione d’animo verso amici e parenti, in ogni particolare. La retta concentrazione è l’ottavo punto del sentiero. Generalmente siamo assorti nell’inconsapevolezza, le nostre menti sono completamente preda di ogni genere di distrazione e di speculazione. Retta concentrazione significa essere completamente assorti nel qui e ora. Questo può avvenire solamente se abbiamo acquisito un qualche tipo di disciplina a farlo, come nella meditazione seduta. Si può persino dire che senza la disciplina della meditazione seduta è impossibile percorrere l’ottuplice sentiero. La meditazione seduta apre un varco nella nostra inconsapevolezza, fornendoci uno spazio, un divario tra le nostre preoccupazioni su noi stessi.

La Meta

Molti avranno sentito parlare del Nirvana come di una sorta di equivalente orientale del paradiso. In realtà, Nirvana significa semplicemente “cessazione”: si tratta dell’interruzione della passione, dell’aggressività e dell’ignoranza; la cessazione della lotta per provare la nostra esistenza nel mondo, per sopravvivere. Dopo tutto, non è necessario lottare per sopravvivere. Siamo già sopravvissuti e sopravviviamo tuttora; la lotta è solo una complicazione che abbiamo aggiunto alle nostre vite perché abbiamo perso la fiducia nel modo in cui vanno le cose. Non avremo più bisogno di manipolare le cose per farle diventare, da ciò che sono, quello che vorremmo che fossero.

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Abbi pazienza

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immane per mettere on-line il mezzo migliaio di pagine che comporranno il sito.
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