I deserti freddi invernali del Turan

Oltre l’orizzonte noto
Varcando le soglie dell’Asia centrale, ci allontaniamo da ogni immagine preconfezionata di deserto.
Non troviamo sabbia rovente né dune dorate che tremolano all’orizzonte, ma ci immergiamo in una vastità silenziosa, fredda e inaspettata. I deserti freddi del Turan, che si estendono tra Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan, ci accolgono con una luce chiara e diffusa, e un’aria sottile che pizzica il volto. Davanti a noi, si apre un mosaico di steppe gelate, colline basse e distese punteggiate da piante rachitiche, che hanno imparato a sopravvivere alle escursioni termiche più estreme.
Ci guardiamo attorno, cercando di afferrare i confini di questo paesaggio che sembra infinito. In inverno, la temperatura scende sotto i -20°C, e tutto sembra immobile. Ma questa quiete non è assenza: è una sospensione, una forma di vita che si ritrae e si conserva, in attesa della stagione breve in cui potrà riemergere.

Ghiaccio e sabbia
Camminando attraverso il deserto del Kyzylkum o di Ustyurt, ci accorgiamo che i deserti del Turan hanno una fisicità inedita. Sotto i nostri piedi, il terreno alterna sabbia ghiacciata a strati di loess e argilla, talvolta coperti da una sottile coltre di neve. Non è raro incontrare piccoli cristalli di ghiaccio che riflettono il sole come vetri rotti, o incrostazioni saline che brillano come se il terreno fosse stato spolverato di diamanti. La luce invernale è obliqua e scivola sulla superficie modellata dai venti, creando bassi rilievi di forme cangianti: creste, crateri, bassopiani erosi dal tempo. In silenzio, ci fermiamo a osservare. Il paesaggio non è uniforme: le sabbie grigie si alternano alle argille color ocra, mentre in lontananza si intravedono piccole formazioni calcaree, quasi miniature di canyon. In certi punti, il terreno appare screpolato come pelle arsa dal freddo: è qui che si percepisce la stratificazione millenaria, la memoria geologica impressa in ogni fenditura.

Segni di vita
All’apparenza, questo ambiente potrebbe sembrare privo di vita. Ma basta prestare attenzione, e ci accorgiamo di quanto sia animato, seppur nella discrezione. Seguendo le tracce nella neve, notiamo il passaggio notturno di una volpe corsac. In lontananza, l’occhio allenato di una guida ci indica una gazzella saiga che si muove rapida tra le sterpaglie, incurante del gelo. Questi deserti ospitano oltre 300 specie di vertebrati, tra cui alcuni endemismi eccezionali. Qui troviamo rettili adattati a inverni rigidi, roditori che si rintanano nel sottosuolo per mesi, e persino predatori come il raro ghepardo dell’Asia centrale o il lupo turanico, che ancora si aggira nelle zone più remote. Abbiamo l’impressione di essere visitatori discreti in un mondo che ci osserva, che ci tollera solo se accettiamo di muoverci con rispetto, in silenzio.

Il cielo come confine
Quando il sole scompare dietro l’orizzonte, l’aria si fa tagliente. Il cielo si apre come una cupola limpida e spoglia: nessuna luce artificiale disturba lo spettacolo delle stelle. Intorno a un fuoco, al riparo tra le rocce o in una yurta allestita per la notte, ascoltiamo le storie dei pastori kazaki e uzbeki che da secoli abitano queste terre.
Ci raccontano leggende che parlano di animali sacri, di spiriti del vento, e di antenati che camminavano tra queste dune quando ancora il deserto non era che una prateria.
Nel silenzio notturno, ci accorgiamo che anche il tempo ha rallentato. Il gelo penetra nelle ossa, ma non fa paura: è parte del luogo, come il respiro profondo della terra. 

Patrimonio vivente
Mentre ci muoviamo tra i deserti del Turan, comprendiamo perché l’UNESCO abbia scelto di tutelare quest’area.
Non si tratta solo di paesaggi spettacolari o di biodiversità rara, ma di un sistema ecologico e culturale complesso, che conserva forme di vita e conoscenze millenarie. La resilienza degli ecosistemi desertici, la capacità delle popolazioni locali di vivere in equilibrio con risorse scarse, il valore scientifico dei suoli e delle specie: tutto concorre a fare di questa regione un archivio prezioso della natura e dell’umanità.
Proteggerlo significa tutelare anche un modo di percepire il mondo che sfugge alla fretta e all’eccesso.
Qui impariamo che la lentezza è necessaria, che ogni dettaglio va osservato, che l’apparente assenza è, in realtà, una forma intensa di presenza. Tornando verso le città, portiamo con noi il ricordo di una bellezza silenziosa, che ci ha parlato attraverso il gelo, la luce e il respiro di una terra antica.

 

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